Non capita di frequente che un’immagine sappia condensare l’intero svolgersi di un’esistenza. La fotografia di un giovane Chet Baker che, seduto su un davanzale, la finestra aperta, suona solitario la tromba, ha questo raro dono. Qui non v’è suggestione ma racconto vivo, persino crudo. V’è il maniacale esercizio del principiante, che ha trovato la sua voce più autentica in quel tubo di ottone e i suoi tre pistoni; la solitudine interiore che i fasti del successo, il fascino che ammaliava le donne, l’essere diventato icona accomunabile perfino a certi divi del cinema – James Dean, Marlon Brando – non riuscirono a scalfire e che trovò rifugio, fino all’ultimo dei suoi giorni, nell’eroina; l’ultimo tratto di una parabola, infine, dolorosissima, terminata proprio con la caduta da una finestra, quella di un albergo di Amsterdam, il 13 maggio 1988, di cui non si è mai chiarita la ragione – fatalità, suicidio, omicidio. «L’uomo che è venuto dalla morte», titolò il periodico britannico Melody Maker, quando giunse la notizia che, nel luglio del 1973, dopo varie peregrinazioni fra Europa e America – e un lungo soggiorno in Italia, di cui frequentò anche le patrie galere – Chet era tornato a suonare all’Half Note di New York. A differenza di tanti geni del jazz che hanno pagato caro in giovane età la fragilità e il ricorso ad alcool e droghe – Bix Beiderbecke, Charlie Parker, Fats Navarro, tanto per dire – lui tornò dalla morte solo per brevi resurrezioni ma mai per risorgere una volta per tutte. Altri – il suo sodale Gerry Mulligan, Miles Davis, John Coltrane – riuscirono a levarsi la “scimmia” dalla spalla: lui no, mai, fino alla fine. Fino a quando l’eroina non ha minato la sua capacità espressiva, ha saputo significare una poesia esile, mai assertiva, prossima – si parva licet – a un «quel che non siamo, quel che non vogliamo». Poesia figlia di un America stretta in un duplice presente – la certezza di dominare uno dei due blocchi ideologici in cui il mondo si era diviso, dopo la fine del secondo conflitto mondiale; la paura di essere coinvolta in un nuovo possibile evento bellico che, dopo Hiroshima e Nagasaki, quel mondo avrebbe distrutto senza appello. Chet Baker non è stato, insomma, solo un trombettista e un cantante divenuto famoso oltre le proprie autentiche qualità, sovrastato dal peso di una eccessiva stima che, ad un certo punto, lo sollevò sopra i grandi colleghi neri della sua epoca – Dizzy e Miles battuti nei referendum delle riviste specializzate. È stato un uomo che ha incarnato in sé più o meno consapevolmente le contraddizioni di un’America che, di fronte al riflusso culturale post bellico, cercava ancore di salvezza in un universo espressivo rassicurante, incapace di rendersi conto che, sotto la coltre del conformismo, spingeva la forza non più contenibile di una nuova era di drammatici contrasti. Inquadrare dentro questa cornice la figura del musicista di Yale serve a leggere nel migliore dei modi “Piacere, Chet Baker”, pregevole lavoro che, a chiusura di “Sant’Anna Arresi Teatro 2017”, organizzata dalla compagnia La Cernita con il patrocinio dell’amministrazione comunale, l’attore Luigi Tontoranelli, da decenni nei ranghi del Teatro di Sardegna, ha messo in scena venerdì scorso nel Parco Comunale di Sant’Anna Arresi, assieme a Giovanni Sanna Passino alla tromba e flicorno e a Salvatore Spano al pianoforte elettrico. Un reading immaginifico ed emozionante, intervallato da brani strumentali o cantati dallo stesso Tontoranelli con voce da “non cantante”, alla ricerca di un contatto con l’estetica del “non cantante” Chet, stroncato ferocemente dalla critica e dai colleghi ma amato da tanto pubblico soprattutto sulla sponda orientale dell’Atlantico. Contatto raggiunto ottimamente da Sanna Passino, i cui ottoni hanno rievocato il suono sottile, privo di vibrato, ma elegante, ricco di idee e baciato dalla grazia di Chet, mentre Spano ha sostenuto efficacemente dal punto di vista ritmico il collega e commentato puntualmente il canto e il racconto, con pertinenti sortite solistiche. La narrazione ha preso spunto da un episodio, non si sa se reale o frutto dell’invenzione – ma in fondo che importa, a teatro? – in cui l’attore, in viaggio sulle strade della Garfagnana, sintonizzato sulle onde di Radio Aulla si imbatte con “My Funny Valentine” cantata da Chet: un’esecuzione sui generis, una voce insolita ma accattivante, certamente unica, tanto che, alla prima sosta in autogrill, dal mucchio dei cd ne vien fuori uno dello strano cantante. Nella confezione c’è un booklet contenente la biografia dell’artista ma il disco non si può ascoltare perché l’automobile è sprovvista di lettore. A questo punto Tontoranelli ha immaginato di intrecciare un dialogo con Chet Baker come se egli sortisse da quell’oggetto come il genio dalla lampada di Aladino. Inizia da questo punto un fitto dialogo fra Luigi e Chet, in cui la voce di questi è differenziata dall’accento americaneggiante ma la lingua, fuori dalla finzione, visti i lunghi soggiorni del musicista dalle nostre parti, è italiana. Il testo ripercorre ogni tappa della “rise and fall”: dall’incontro con la tromba, divenuta in seguito un tutt’uno con l’artista («Io sono la tromba»), tanto da fare ingelosire le donne al canto trattato con disprezzo dai critici americani; dalla nascita del cool jazz, l’amore per il sound di Miles Davis e del suo Nonette con Gil Evans, Lee Konitz, John Lewis e quel Gerry Mulligan con cui raggiunse le vette della fama, al rapporto difficile con il be bop e suoi alfieri, con cui Chet suonò nei suoi primi anni di carriera, così lontani dall’estetica snervata e pacificante del cool. In Europa, e ancor più nel Belpaese, quella musica piace, soprattutto quella del Gerry Mulligan Quartet. «Quel jazz ha addomesticato il bop, ha riscaldato il cool e ha alleggerito il progressive. Un jazz fresco, insomma, musicale e pieno di swing», così la pensava il saxofonista Attilio Donadio, una delle punte del jazz nazionale degli anni Cinquanta e Sessanta. I motivi erano i più svariati: il be bop, il cool del duo Davis-Evans e di Lennie Tristano, il progressive di Stan Kenton e dei teorici della “third stream” (il jazz che incontra le forme della musica eurocolta postromantica) andavano in direzione contraria rispetto al gusto musicale nazionale, incentrato sulla melodia: il Quartet la recuperava (Donadio non a caso parla di «un jazz […] musicale»), Mulligan e Baker la esaltavano. Le forme non erano in realtà semplici, basti pensare all’uso del contrappunto, ma in ogni esecuzione domina il relax e l’approccio strumentale non provoca le vertigini. Per di più, attorno a Chet Baker, personaggio da rotocalco per via delle sue pessime abitudini, si sviluppò una morbosa curiosità: i musicisti e gli appassionati che ne divennero amici cercarono di aiutarlo in tutti i modi ma inutilmente. Tontoranelli ha rievocato, con un racconto di colore partenopeo, l’episodio del furto della tromba a Napoli: bastò quello perché Chet tornasse all’eroina. E poi l’arresto, il processo, il carcere a Lucca. Uscito di galera, il trombettista sembrò poter svoltare: concerti, incisioni, colonne sonore, cinema ma da allora in poi – il racconto dell’attore del Teatro di Sardegna lo ha sottolineato – dalla metà degli anni Sessanta fino alla tragica notte di Amsterdam, Chet Baker riuscì solo incamminarsi verso una lunga e dolorosa china. Una discesa agli inferi fatta in verità di qualche ripresa momentanea – come l’lp “Once Upon a Summertime”, del 1977, davvero pregevole – ma costantemente percorsa, tristissima, dolente, fatale. Tontoranelli ha messo tanta partecipazione nel narrare questa dolorosa vicenda. La scelta di dialogizzare l’affabulazione ha dato vitalità al racconto che è scorso via facilmente, punteggiato da belle esecuzioni musicali di temi della tradizione della popular music americana e non solo: l’immancabile “My Funny Valentine”, l’hit del Gerry Mulligan Quartet “Bernie’s Tune”, “Time After Time”, “Everything Happens To Me”, “You Don’t Know What Love Is”, “Ev’rytime We Say Goodbye”, “Just Friends”. «Stiamo parlando da un’ora e non ci siamo neanche presentati: io sono Luigi Tontoranelli», «Piacere, Chet Baker». 

piacere, chet baker

di Luigi Tontoranelli
di e con Luigi Tontoranelli
Pianoforte: Salvatore Spano
Tromba: Giovanni Sanna Passino
Una serata per raccontare un mito del jazz: Chet Baker. Musicista timido e spregiudicato, dolcissimo e violento quasi sempre sull'orlo del baratro, tra droghe, amori disperati, e la sua inseparabile tromba. Magro, scavato, nervoso, Baker era terrorizzato dal giudizio degli altri. Alcuni critici lo accusavano di voler imitare con la sua tromba Miles Davis,ma amavano il suo modo sognante dicantare; altri nel suo modo di cantare lamentavano invecemancanza di concretezza e  virilità. E allora Chet si avvolgeva nel suo bozzolo, il capo e le spalle curvi, completamente distante dal pubblico di cui sembrava a malapena riconoscere l'esistenza. E suonava... 

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